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Scarpe e abbigliamento da corsa svizzeri ad alte prestazioni

Alla scoperta di nuovi sentieri nel Caucaso

Kirra Balmanno ama le sfide. Lo dimostra il suo CV, che riflette una duplice carriera, come veterinaria e maratoneta d’alta quota. Esplorare nuovi sentieri del Caucaso georgiano, quindi, era proprio il compito che faceva per lei. Qui di seguito Kirra racconta la sua avventura.

Ce ne stavamo seduti sulle rocce gemelle Adalary trattenendo il respiro, nell'attesa che la luce del sole si insinuasse tra le nuvole per regalarci un’alba spettacolare sul Monte Kazbek, che si stagliava sullo sfondo. Un cane ci aveva seguiti fino al belvedere e sembrava condividere il nostro entusiasmo e il nostro sfinimento. Con gli sguardi rivolti a est di tanto in tanto uno di noi sbadigliava, innescando una reazione a catena. Da quando eravamo arrivati in Georgia, non avevo mai visto il mio cameraman così rilassato in presenza di un cane.

Eravamo sereni e soddisfatti, un po’ come il vecchio vulcano, ormai inattivo, che si ergeva davanti a noi. La nostra calma era in parte dovuta alla stanchezza accumulata dopo una notte passata quasi in bianco a 3001 metri di altitudine e una sveglia prima dell’alba per cogliere il momento giusto per i primi scatti. Avevamo corso da Omalo a Kazbegi: un viaggio di dieci giorni per gli escursionisti, concentrato in tre da noi runners, in cui abbiamo incluso anche un servizio fotografico. Eravamo a metà dell’impresa. In totale sarebbero stati 335 km e oltre 20.000 metri di dislivello in undici giorni di corsa. Insomma, divertimento ai massimi livelli per noi di Type Two.

L’alba non è stata tra le più spettacolari. Ma lo era il posto in cui ci trovavamo. E poi, le avventure più belle, spesso non vanno come avevi programmato, soprattutto se decidi di attraversare le zone più selvagge del Caucaso correndo e—come se non bastasse—di portarti dietro un fotografo. Le fotografie del tramonto le avevamo riservate per quei giorni in cui sapevamo che non avremmo visto un letto caldo prima di sera. La nostra ansia di vedere l’alba era una questione che i nostri ospiti georgiani sembravano non comprendere. Infatti, non ci portavano mai la colazione prima delle otto. Tuttavia, il cibo era talmente buono da ricompensare sempre le nostre attese.

Le nuvole scure a forma di squali affamati che il giorno prima avevano accerchiato la cima del Monte Kazbek, a 5033 metri di altitudine, non si erano affatto dileguate. Quindi, al posto di goderci la vista, cogliemmo l’occasione per correre fino al ghiacciaio. Saremmo riusciti a tornare indietro in tempo per prendere una Marshrutka (taxi collettivo) fino a Tbilisi.

Cosa ci facevamo là? Mi sono posta la stessa domanda infinite volte durante i 40 chilometri che percorrevamo in media ogni giorno.

Negli ultimi anni questo genere di viaggi è diventato un appuntamento annuale per me. Prima di intraprenderli, incomincio ad agitarmi. Rappresentano un ritorno all’essenza di cui sento di avere bisogno. Il mio mantra durante questi viaggi è: “mangia, dormi, corri—e poi—ripeti la stessa sequenza.” Per un runner come me, durante questo tipo di esperienza la ricompensa per la propria fatica raggiunge il massimo livello, mentre lo stress causato dagli altri esseri umani è ridotto al minimo. È come se vivessi un’esplosione di creatività. Mi perdo tra le valli, sola sui valichi di alta montagna. In seguito, vengo caldamente accolta nei villaggi sperduti insieme ai miei compagni di viaggio. La gente del posto ci serve il tè e interagisce con noi come se fossimo amici di vecchia data.


L’impegno fisico estremo che viene richiesto al nostro corpo quando percorriamo distanze lunghe in alta quota, dà adito all’introspezione.


Ogni esperienza di questo tipo rappresenta un’occasione per sfidare i propri limiti. È un modo per scoprire noi stessi e crescere in maniera consapevole. L’ambiente montano è di importanza vitale per scaturire questo processo. La maestosità della natura e la presenza regale delle montagne ci aiutano a rimanere con i piedi per terra e ci aprono gli occhi come poche altre cose a questo mondo.

"The extreme physical demands placed on the body by running high altitudes and unimaginable distances in less-than-luxury conditions causes an introspective shift."


It’s a way to defy one’s own limits and creates space for inner discovery and mindful expansion. Mountain surroundings are beneficial, if not vital, for this process. Their raw majesty, their regal presence, grounds us and opens our eyes in a way that little else can.

Più di un anno fa, mentre pianificavo questo itinerario in ogni suo dettaglio durante le mie pause pranzo, avevo pensato che quella di andare in un posto nuovo fosse una buona idea. Volevo attraversare valichi ad altitudini superiori a 3.500 metri, percorrendo prevalentemente single trails, non quei sentieri scorrevoli che puoi trovare sulle Alpi, ma contorti, rocciosi, erosi ed esposti alle intemperie. E così è stato. Inoltre, più di una volta ci ha attraversato la strada una vipera— altri momenti poco rilassanti per il mio cameraman. Per non parlare di quelle parti del sentiero che attraversano vere e propri “piantagioni” di ortiche. Ho scoperto che se ti fai pungere troppo dalle ortiche puoi svenire oppure passare la notte in bianco. Un’altra curiosità? Le foglie di ortiche si possono cuocere e mettere sulla pizza, cosa che farò sicuramente quando sarò tornata a casa.

Questa avventura è stata un’occasione di scoperta: di noi stessi e di una parte del mondo inedita per noi, come in realtà per i trail runners più in generale. Parlando con David, il mio referente nella comunità locale georgiana di trail running (formata da circa dieci membri), questo era un territorio ignoto ai runners. Era duro e puro e, sì, a tratti difficile. Correre su una serie di valichi di montagna portandosi dietro tutta l’attrezzatura per la telecamera, il cibo per la giornata e tutto quello che ci serviva per affrontare una lunga corsa in mezzo alla natura selvaggia sempre più in alto. Allo stesso tempo rimanevamo sempre all’erta, pronti a tirare fuori i nostri bastoni in qualsiasi momento per tenere a bada la ferocia di un cane da pastore georgiano da 90 kg. quando si fosse presentata la necessità—il ché è successo più di un paio di volte. Prima di andarcene dalla capitale Tbilisi, David mi aveva raccontato che il suo amico Beka si porta dietro dei petardi per proteggersi. “Funziona a meraviglia!” Purtroppo non avevamo pensato di mettere in valigia dei fuochi d’artificio…

Oltrepassati strade e villaggi, potevamo correre tutto il giorno senza vedere traccia di presenza umana. Ad eccezione del sentiero serpeggiante davanti a noi e dell’occasionale torre medievale in lontananza che si ergeva diroccata e solitaria sul pendio. Utilizzate nell’antichità come punto di osservazione per avvistare briganti e invasori, queste torri risalgono a un periodo che va dal nono al dodicesimo secolo. E si vede. Alcune restano in piedi a metà, con un mucchio di detriti alla base. Altre danno come l’impressione che soccomberanno alla gravità e crolleranno da un momento all’altro.

Questo era esattamente quello che volevo quando ho immaginato di correre fino al cuore del Caucaso. Lontano dai versanti di montagna coltivati e dal suono dei campanacci che, sulle Alpi, segnalano la presenza dell’uomo. Durante questo viaggio non abbiamo incontrato niente di familiare. Ogni giorno scoprivamo nuovi belvedere, ridevamo, stringevamo amicizie e affrontavamo sfide sempre diverse.

L’avventura è iniziata a Tbilisi. Il primo giorno ci siamo subito lasciati la città alle spalle e, dopo aver guidato per otto ore su strade sterrate che si snodavano tra versanti scoscesi, abbiamo raggiunto il nostro punto di partenza, Omalo. Quando arriva il mese di ottobre, i villaggi come quest’ultimo si svuotano. Tornano a popolarsi soltanto quando la neve sui valichi si è sciolta e l’unica via di accesso è stata sgomberata dalle frane.

Per strada avevamo superato una decina di Mitsubishi Delica, simbolo non ufficiale delle strade caucasiche, che sfidavano le leggi della fisica inerpicandosi su strade a tornanti incredibilmente ripide.

Il ciglio della strada era punteggiato di memoriali. Al posto dei mazzi di fiori, vecchie foto delle persone che avevano perso la vita qui, insieme a bottiglie di plastica da tre litri di birra e boccette di chacha, il superalcolico locale. Questo ci ricordava che eravamo in Georgia, anche se il paesaggio ci imbrogliava, facendoci credere di non aver mai lasciato le Alpi.

Ogni tanto notavamo un paio di falchi fluttuare romanticamente nell’aria. La conseguenza del loro primo avvistamento, fu quella di alleggerire il peso che il mio compagno di viaggio, il fotografo austriaco Lukas, portava sulle spalle. Infatti, perdemmo il nostro drone ed ogni connessione con esso. Forse erano gli stessi falchi a eliminarlo dal loro cielo, per poi sparire nel lussureggiante fondovalle più in basso. Oltre ai rapaci, gli altri animali della fauna del Caucaso superiore—che comprende orsi, leopardi e lupi—non si sono lasciati scorgere da noi intrusi.

Il nostro autista ci aveva letteralmente scaricati a destinazione prima di fare inversione in mezzo a una nube di polvere. Per un momento rimanemmo lì, nelle mani nient’altro che i nostri piccoli zaini con cui avremmo corso fino a Kazbegi, a 160 chilometri di distanza. Aprii il cancello cigolante e attraversai il giardino rigoglioso della casa che ci avrebbe ospitati. Fiori color lilla, aneto e meli fiancheggiavano la stradina che portava a un tavolo sotto un ombrellone. Dopo pochi minuti quello stesso tavolo si era popolato di piatti stracolmi di anguria, biscotti e caffè turco dal profumo intenso. Un carico di energia per i giorni a venire.

Il primo giorno volò. Percorremmo sentieri, meravigliandoci davanti alla bellezza di un paesaggio che a me ricordava la mia casa nelle Alpi svizzere, dove avevo trascorso l’estate precedente. Raggiungemmo il nostro obiettivo poco dopo mezzogiorno e passammo il pomeriggio a crogiolarci al sole, nell’attesa di una Delica carica di trail runners che ci avrebbero raggiunti. Nella nostra ingenuità ci eravamo dimenticati che questo sarebbe stato il nostro ultimo momento di relax.

Girevi si trova a pochi chilometri dal confine con la Russia. Stavamo guardando verso nord, dove si ergeva una collinetta, quando uno dei sei trail runners georgiani, che ci avevano raggiunto nel secondo giorno, ci avvertì, dicendo: “Oltre questo valico si trova la Cecenia. Se lo attraversate, finite dritti in prigione.” Essendo stranieri, io e il mio fotografo probabilmente saremmo stati rilasciati nel giro di pochi giorni. Per i georgiani, invece, avrebbero potuto volerci diversi anni. Continuammo a pensarci anche in seguito, mentre eravamo seduti alla frontiera, scaldati dal sole del pomeriggio, in attesa che i nostri passaporti fossero controllati prima di poter proseguire verso il Passo di Atsunta. Sotto l’occhio vigile di un cane da guardia grosso come un lupo ognuno di noi si guardava bene dal fare movimenti improvvisi.

La Georgia e la Russia sono ancora ufficialmente in guerra e le fortezze in rovina sparpagliate qua e là non aiutano a dimenticare la sanguinosa storia della regione. Nonostante ciò, l’atmosfera è tranquilla e ci si sente sicuri. Quella sera, per la seconda volta, avemmo occasione di apprezzare l’ospitalità georgiana. La famiglia presso la quale passammo la notte aveva passato il pomeriggio a preparare khinkali (ravioli ripieni di carne) per onorare il nostro arrivo. In Georgia c’è un proverbio che dice: “Un ospite è un dono di Dio.” Iniziai presto ad affezionarmi a questa mentalità…

Ci servirono porzioni di cibo più che degne della più ricca dieta dell’ultrarunning: piatti di verdure, zuppe, pane fresco, formaggi fatti in casa e una specialità locale immancabile, ovvero, cetrioli e pomodori conditi con una salsina a base di noci tritate. La tavola era talmente colma che i piattini colmi di burro con cui accompagnare il tutto venivano posti su una sedia vuota per mancanza di spazio.

La cucina ricca e deliziosa era fondamentale per placare, anche solo momentaneamente, l’appetito insaziabile che ci assaliva dopo le nostre fatiche quotidiane. Per le giornate in cui la nostra fame era particolarmente grande, i nostri ospiti ci servivano il khacciapuri, una specie di piadina o pizza bianca, ripiena di formaggio. Al mio arrivo a Tbilisi, riuscivo a mangiarne appena una fetta per pasto. Il decimo giorno, ne trangugiavo un piatto intero.

Ad accompagnare il cibo c’era una varietà di bevande, soprattutto specialità alcoliche. A dire il vero a tavola non c’era mai acqua, ogni sera i nostri ospiti di turno ci incoraggiavano a brindare tutti insieme, bevendo vino, birra e chacha, di solito conservati in bottiglie di Fanta riciclate. Ci fu presto chiaro che non c’erano mezze misure: dopo aver accettato una volta, il bicchiere veniva riempito a ripetizione. Ecco perché, finimmo per abituarci a rifiutare categoricamente già al primo assaggio, concedendoci però—sia chiaro—alcune eccezioni, per non mancare di rispetto alla cultura locale.

Una di queste si concretizzò quando partecipammo a una supra (una festa georgiana) insieme ai trail runners che si erano avventurati nel Tusheti insieme a noi. Così il secondo giorno partimmo con la pancia piena e un’allegra comitiva di nuovi amici. Mi ero portata sei paia di Cloudventure Peak dalla Svizzera per i membri della nostra squadra e le mettemmo alla prova sul terreno caucasico. Corremmo sulle rocce, attraversammo fiumi, per un totale di quaranta chilometri, ad altitudini da far venire le vertigini. In cima al Passo di Atsunta (3400 metri), David mi disse, con il suo solito tono disinvolto: “Domani correrai su quelle montagne.” Ero rimasta a bocca aperta mentre cercavo di guardare le due lontanissime cime che stava indicando. Avevo lavorato come veterinaria a Folkestone, sulla costa meridionale dell’Inghilterra e ricordo che quando al mattino il cielo era terso riuscivo a vedere la Francia dall’altra parte del canale, a oltre 160 chilometri di lontananza. Ecco, la distanza che mi mostrava mi sembrava grossomodo la stessa.

I giorni successivi furono altrettanto incredibili. Il trail team si era ridotto a noi due. Durante la corsa il dialogo era sempre lo stesso: il bip dei chilometri dell'orologio seguito dal mio aggiornamento sulla distanza già percorsa. E poi arrivava la risposta di Lukas, che consisteva sempre in un allegro: “Bene!” Non si lamentò mai, nemmeno durante quella calda giornata a Svaneti in cui era così sfinito che per un momento fui seriamente preoccupata per la sua salute. Si limitò a dire: “Sono davvero distrutto” e furono le prime e le ultime parole  che mi rivolse quella sera. Continuai a passargli cibo e tazze di tè, sperando che si riprendesse. Per fortuna funzionò.

Alla fine di ogni giornata di corsa, ci sedevamo a tavola per cena ripensando agli eventi della giornata. Prima del viaggio, Lukas ed io ci eravamo incontrati solo tre volte. Durante la nostra avventura, invece, stavamo insieme 24 ore su 24 ed erano tanti i momenti in cui ringraziavamo il destino di essere in due. Per esempio quella volta a Kvemo Marghi quando un cane grosso come un orso saltò la recinzione e ci fu quasi addosso. Non essere soli era di importanza vitale soprattutto nelle giornate più lunghe e dure. A volte, per arrivare fino in cima, le risate e il “quatschen”—una parola tedesca che indica l’attività del chiacchierare, dicendo cose senza senso—erano fattori indispensabili, tanto quanto il cuore e polmoni.

Ci fu un’altra occasione in cui facemmo uno strappo alla regola di non accettare mai la “chacha” (il liquore locale). Fu durante il nostro soggiorno memorabile a Zemo Marghi. David, che aveva prenotato un alloggio per noi, mi aveva detto: “Quando arrivate al villaggio chiedete di Murmon.” Per fortuna, nell’intero villaggio composto da 12 case c’era soltanto un uomo di nome Murmon che ospitava i viandanti. Si trattava di un allegro vecchietto che, quando ci avvicinammo, stava tagliando la legna davanti a una casa di due piani dall’aspetto rustico. Ci aveva sorriso, dicendo qualcosa di cui potei distinguere soltanto la parola “russki”. Gli dicemmo che non parlavamo russo. Lui ridacchio, ci fece segno di seguirlo e chiamò: “Saba”!

Ci mostrò il nostro alloggio e il suo terreno, dove le mucche pascolavano su un prato curato. Ai limiti di quest’ultimo, dove incominciava il bosco, scorgevamo una serie di arnie, disposte a semicerchio. Sullo sfondo, il paesaggio mozzafiato di alta montagna. Un pastore tedesco scodinzolava accanto a una vecchia vasca da bagno vicino a un tavolo di legno. L’atmosfera era tranquilla.

Murmon ci invitò a sederci e in quel momento uscì dalla casa il figlio di nove anni che ci sorrise gentilmente e dispose sul nostro tavolo un cestino pieno di pane e due piatti, uno colmo di formaggio, l’altro di cetrioli. Affamatissimi come sempre, spazzolammo via tutto.

Al calare della sera, l’anziano attaccò una lampadina a un ramo dell’albero la cui chioma sovrastava il nostro tavolo. Saba stese sul nostro tavolo della carta da macelleria riciclata che avrebbe funto da tovaglia e dispose alcuni foglietti di carta—pagine strappate da un taccuino—a mo’ di tovagliolini. Rimanemmo a guardare, impazienti di capire cosa sarebbe successo. I nostri occhi erano pieni di riconoscenza, le parole non servivano. Ci servirono una ricca zuppa insieme ad altro pane e formaggio e, come avrete indovinato, portarono anche l’immancabile bottiglia di plastica contenente chacha. Brindammo alla maniera tradizionale, tenendo il bicchiere in mano e intrecciando il nostro braccio attorno a quello del vicino per mandare giù il liquore tutto d’un fiato—il ché ci fece tremare leggermente, da tanto che era forte.

Lukas ed io ci scambiammo un’occhiata che esprimeva al contempo preoccupazione (come sarebbe andata a finire la serata?) e serenità, poiché la nostra giornata, per quanto lunga e faticosa, si era conclusa attorno a una tavola imbandita in un giardino, in compagnia della gente del posto. Purché mancasse una lingua comune in cui comunicare, ci sentivamo vicini gli uni agli altri e felici di stare insieme. I nostri telefoni rimasero dentro la casa e non andammo a recuperarli. Sarebbe stato assai scortese chiedere: “Scusate, avete mica il wi-fi?” Così rimanemmo all’aperto e giocammo a calcio con Saba. Infine il ragazzino ci mostrò il suo arco e le sue frecce di legno, intagliati a mano.

La mattina successiva ci regalò un bel cielo azzurro. Cominciammo il nostro riscaldamento con un jogging lento, salutando i nostri nuovi amici che si stavano caricando le briglie sulle spalle, probabilmente diretti a recuperare i loro cavalli.

Oltre ai mal di testa causati dal chacha, ogni giornata ci riservava nuove sfide: arrossamenti cutanei (Lukas), malori gastrointestinali (la sottoscritta) e incontri improvvisi con cani grossi come cavalli. Il mio braccio sinistro si era spellato perché scottato dal sole. Inoltre, sembrava che i nostri corpi avessero smesso di regolare la propria temperatura. Per cena noi due ci sedevamo a tavola tutti imbacuccati mentre gli altri astanti si lamentavano per il caldo. Già…ma d’altronde me l’ero andata a cercare: ricordo che prima di partire, mentre eravamo seduti nel nostro burrito bar a Innsbruck—ancora ignara di ciò che ci avrebbe aspettato—avevo addirittura sollevato il dubbio: “Cosa dici Lukas, sarà tosta abbastanza?”.

La sera del settimo giorno a Nekra, rimasi sveglia nel letto. I muscoli delle gambe bruciavano come dopo un’ultramaratona. Anche la mia pelle era in fiamme: avevo attraversato un campo di ortiche. Mi chiesi, con pochissima fiducia in me stessa, se sarei stata in grado di portare a termine quello che avevo incominciato. A quel punto mi resi conto che si trattava di un’avventura reale. Un viaggio che per riuscire presuppone un percorso di crescita. Questa consapevolezza mi diede l’entusiasmo necessario per continuare.

Non mi piace lasciarmi sfuggire un’opportunità di crescita. A maggior ragione quando ha che fare con la corsa le montagne.

Tutto era diventato più semplice dopo l’illuminazione di quella notte. Il giorno successivo, infatti, facemmo una corsa più breve, di appena 22 chilometri, alla volta della turistica Mestia. Praticamente una “giornata di riposo” per noi, con meno di 1.600 metri di dislivello. C’erano dei negozi per fare rifornimento di barrette di cioccolato che ormai scarseggiavano. Un temporale aveva finalmente rinfrescato l’aria soffocante come a simboleggiare la fine delle dure giornate che ci lasciavamo alle spalle. Continuammo la nostra corsa giocando: saltavamo nelle pozzanghere, i sentieri erano sempre più scorrevoli e ci fermavamo di tanto in tanto per ammirare l’immenso ghiacciaio che spuntava in fondo alla vallata, proprio davanti a noi. Accidenti, natura, sei meravigliosa!

"Opportunity for growth is something I don’t like to pass up. And when there’s running and mountains involved, even better."


Everything became easier after that epiphany in Nakra. A shorter run into touristic Mestia – just 22 kilometres. Practically a “rest day” if you will, with less than 1600m of vertical ascent. There were shops to restock a dwindled chocolate bar supply.  A thunderstorm finally cooled the sultry air. Like symbolism to the challenges of our journey being behind us in the wake of more time for play. And play we did. Jumping in puddles, skipping over increasingly flowing trails and stopping to bask in the brightness of the massive glacial wall that emanated from the end of the valley, right in front of us. Damn, nature, you’re gorgeous!

Non l’avevamo programmato ma la nostra ultima giornata di corsa fu proprio da gran finale. Come ho già avuto modo di spiegare, il bello delle avventure è proprio questo: ogni sua parte è un’incognita finché non la vivi. L’ultimo giorno, quindi raggiungemmo la cima di un altro passo meraviglioso. Avevamo attraversato un fiume, che nasceva da una cascata ghiacciata e la cui acqua era talmente gelida che ci aveva fatto perdere la sensibilità nelle dita dei piedi. A nord, si ergeva un’enorme parete di ghiaccio, come se la Russia avesse posto un maxischermo lungo la propria frontiera per nascondere quello che c’è dall’altra parte. Una visione che aveva del surreale.

Quando, ridiscendendo, imboccammo l’ultima curva, lasciandoci definitivamente alle spalle la vista del ghiaccio, ci sentivamo come due bambini costretti a rincasare dopo aver passato la giornata a Disneyland. Eravamo sovraeccitati grazie a quello che avevamo vissuto (nonché all’apporto di zuccheri contenuti negli orsetti gommosi, acquistati due giorni prima, che avevamo mangiato lungo il percorso). Non volevamo lasciare quel luogo magico, ma non dovevamo mancare all’appuntamento con il nostro autista, che ci aspettava alle 16 per riportarci nella colorata capitale. Il nostro punto di ritrovo, Ushguli, un villaggio abitato durante tutto l’anno, è tra gli insediamenti umani permanenti più alti di tutt’Europa. I miei sentimenti erano contrastanti. Da un lato non volevo accettare che quell’avventura finisse. Allo stesso tempo avevo un disperato bisogno di buttare i miei vestiti in lavatrice e desideravo che Lukas potesse finalmente buttare il suo berretto puzzolente nella pattumiera!

Viaggiando sul sedile posteriore, mentre l’auto percorreva quelle tortuose strade di montagna, in bilico tra sensazioni di nausea e di soddisfazione, tornai a ragionare sull’enorme potenziale di un viaggio nell’ignoto, come quello che avevamo appena concluso. Le differenze avevano creato unione e la fatica aveva reso tutto più reale. La mia decisione di percorrere quei trails di montagna, spesso difficili, a volte pericolosi e così poco conosciuti non ci aveva soltanto fatto scoprire paesaggi incantevoli, mi aveva anche permesso di conoscere una versione migliore di me stessa.

La Georgia fa per te?

Se la bellezza incantevole delle Alpi svizzere ti lascia senza fiato e il fascino dell’Himalaya ti fa venire i brividi (in senso positivo!), allora la risposta è “sì.” Magari non andarci se sei a dieta!

La Georgia è adatta al running?

Decisamente sì. Type Two Run organizza una settimana dedicata esclusivamente al trail running sui sentieri migliori. Vuoi partecipare? Ci vediamo ad agosto 2020! typetworun.com

Come arrivare

Non perderti Tbilisi, l’eclettica e colorata capitale. Ci arrivi in aereo, treno o un anche con un furgone se riesci a riunire un po’ di amici che ti accompagnano!

Le statistiche

11 giorni di corsa nel Caucaso – 335 km – 20.430 metri di dislivello

L’itinerario di Kirra (ringraziamo di cuore David Jijelava e Beka Aslanishvili per i loro preziosi consigli e Paul di Trans Caucasian Trail per le informazioni aggiornate sulla parte relativa alla Svanezia).

L’itinerario

Giorno 1

Omalo – Girevi

33,46 km/2.084 m+

Giorno 2

Girevi – Shatili

40,24 km/2.455 m+

Giorno 3

Shatili – Roshka

43,48 km/2.969 m+

Giorno 4

Roshka – Kazbegi

43,64 km/1.761 m+

Giorno 5

Kazbegi – Altihut 3001

10,85 km/1.356 m+

Giorno 6

Altihut – Ghiacciaio del Monte Kazbek – Kazbegi

12,86 km/392 m+

Vedi sopra. Fondamentalmente abbiamo percorso lo stesso itinerario a ritroso, aggiungendo qualcosina.

Giorno 7

Giornata di riposo a Tbilisi + Calorie

Giorno 8

Kvemo Marghi – Zemo Marghi

5 km/336 m+ escursione/corsa non inclusa

Giorno 9

Zemo Marghi – Nakra

32,01 km/2.228 m+

Giorno 10

Nakra – Mezeer

40,62 km/2.825 m+

Giorno 11

Mezeer – Mestia

22,59 km/1.538 m+

Giorno 12

Mestia – Adishi

26,13 km/1.654 m+

Giorno 13

Adishi – Ushguli

30,01 km/1.168 m+