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Teshome Mekonen: perfezionare la maratona

Alle soglie dei Trials olimpici USA per la maratona, l’atleta americano nato in Etiopia parla dell’importanza di sostituire la quantità con la qualità.

Testo di Sheridan Wilbur, fotografia di Yohannes Mehari

Teshome Mekonen sa bene che, per poter migliorare, i cambiamenti e le incertezze sono inevitabili: negli ultimi anni il maratoneta d’élite di origine etiope ha acquisito la cittadinanza americana e cambiato sponsor, coach e zona in cui allenarsi. 

Al momento di questa intervista, il ventottenne è appena stato ingaggiato da On e sta per debuttare nei Trials olimpici USA per la maratona del 3 febbraio 2024 a Orlando, in Florida. Mekonen, attualmente al 13º posto, ha completato la maratona di Berlino lo scorso ottobre con un tempo di 2:10:16 e un passo da 2:04 per i primi 32 km. È vero che dovrà affrontare quei 42,2 km con il caldo e l’umidità della Florida, ma il suo tempo per la mezza maratona resta il più veloce sul campo, un chiaro segno del suo potenziale. Con una giornata buona e un’adeguata strategia per il piazzamento, Mekonen ha buone possibilità non solo di qualificarsi per entrare nella squadra olimpica USA, ma anche di vincere la gara.

Ora non si tratta più solo di lavorare sodo: il suo approccio post-Berlino si concentra su un volume inferiore e una qualità superiore; su meno corse in solitaria e più allenamenti di squadra. Mekonen ha modificato ogni elemento del suo allenamento, per potersi presentare alla linea di partenza e dimostrare che l’ultimo arrivato è pronto a dar battaglia. Andiamo a scoprire il maratoneta più veloce (e praticamente sconosciuto) d’America. 

Mi interessa saperne di più sui diversi ambienti in cui ti sei allenato. Hai vissuto a New York, poi a Colorado Springs, e ora sei ad Addis Abeba, in Etiopia. In termini di allenamento, quali sono le differenze fra tutti questi luoghi?

Mekonen: Per me era molto difficile allenarmi a New York, a causa della bassa altitudine e dell’umidità pressoché costante. Non portava certo a grandi risultati. Poi mi sono trasferito a Colorado Springs, ma anche lì mi trovavo in difficoltà per la mancanza di una squadra forte o di un coach. Un altro problema era l’altitudine, inferiore rispetto a quella dell’Etiopia. E per finire, il cibo. In Etiopia gli alimenti sono biologici, e li preferisco. Inoltre, [in Etiopia] il coach è sempre al mio fianco, e questo è molto importante per me. Significa poter avere un feedback immediato su allenamenti e programmi, tipo: “Questo è quello che serve al tuo corpo, adesso il tuo corpo è a questo livello, devi fare più palestra, eccetera”. Sono queste le cose per cui sono venuto in Etiopia. 



Dati i trascorsi di guerra civile in Etiopia, com’è allenarsi in questo paese? Lo senti più sicuro, rispetto agli anni precedenti? [Il 2 novembre 2022 il Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè (FPLT) e il governo etiope hanno firmato un accordo di pace, ponendo fine a un conflitto di due anni in cui sono morte migliaia di persone e altrettante sono state costrette a fuggire.]

Mekonen: Bella domanda. Non è come prima, le cose sono migliorate. Sono sempre molto cauto quando ci vengo, a volte dimentico che tutta la zona era sotto assedio. Quando sono negli Stati Uniti è difficile avere informazioni. [Il governo etiope ha bloccato l’accesso a comunicazioni, banche ed elettricità nel Tigrè, rendendo praticamente impossibili i contatti con il mondo esterno.] La situazione non è completamente sicura, ma è decisamente migliorata. Io mi limito a correre, non mi avventuro in altre zone, e al termine dell’allenamento ritorno a casa. 



Il clima di Addis Abeba ti ha aiutato a prepararti per le condizioni di Orlando [in Florida, sede dei Trials olimpici USA per la maratona 2024]?

Mekonen: Sì, è stato utile. Il mio coach sa che questa gara è a Orlando, dove l’altitudine è inferiore e fa caldo, e mi dà i consigli giusti. Abbiamo cercato di replicare l’ambiente in cui mi troverò il giorno della gara e fatto delle prove a tempo in quelle condizioni.



Parlami del rapporto con tua moglie, Feven Alem, e di come, fra di voi, l’aspetto personale e quello professionale siano indissolubilmente legati. In che misura credi che questo contribuisca al tuo successo?

Mekonen: Mia moglie, che è anche la mia manager, è molto comprensiva e intelligente. Opera nel settore [del running], quindi mi capisce molto bene e sa cosa significa essere un atleta professionista. Ogni volta che si presenta una sfida mi dice: “Non svelare le tue carte, lavora sodo, non arrenderti”. Affrontiamo le cose insieme, ci sosteniamo a vicenda per trovare le soluzioni. Ci sono state molte sfide, e non sempre è facile, ma la nostra è una prospettiva a lungo termine. Mia moglie mi dà esattamente i consigli di cui ho bisogno, ed è una partner molto affettuosa. E tutto funziona perfettamente. 

Alla maratona di Berlino del 2023 hai completato con un tempo di 2:10:16, e per la maggior parte della gara avevi un passo da 2:04. Hai perfezionato la tua strategia, da allora? Modificato gli allenamenti?

Mekonen: A Berlino sono partito molto sicuro di me stesso, perché mi ero allenato moltissimo. Ma in quella gara ho capito che a Colorado Springs avevo esagerato con l’allenamento. 

Quand’ero lì non avevo nessuno con me, il mio chilometraggio era elevato, la velocità era elevata, era tutto elevato. Davvero troppo. Mi sembrava che 2:05 o 2:04 fossero tempi facili da raggiungere, ero troppo sicuro di me stesso. Pensavo: “Ho lavorato sodo, quindi avrò un buon risultato, finirò in 2:05”. 

Durante la gara non avevo un pacer.  Se avessi avuto un passo più mirato, avrei capito di poter fare la prima metà in 1:03 e la seconda in 1:05, e il risultato sarebbe stato comunque 2:08. Inoltre, dopo i primi 20 km non ho bevuto più niente. Non ho reintegrato i fluidi in un paio di stazioni di rifornimento, e non ho preso l’acqua offertami dai volontari. Può aver avuto un impatto sulla gara.

Ho imparato molto da Berlino. Affronterò i Trials con maggiori conoscenze e un atteggiamento mentale più positivo. In passato non avevo un gruppo con cui prepararmi, mentre adesso ad Addis Abeba mi alleno in gruppo, e non devo più correre per 30 o 40 km da solo. A turno, ciascuno di noi conduce il gruppo e stabilisce il ritmo. Quindi lavoro sodo, ma non subisco più le conseguenze di dover correre a quel ritmo in completa solitudine. Si tratta di uno sforzo collettivo, e il recupero mi è più facile. È esattamente quello di cui ho bisogno.



Quando stavi valutando la scelta del tuo nuovo contratto con un brand, quali fattori hai considerato? Cos’era più importante per te?

Mekonen: Volevo sentire un legame reale con il brand, al di là dell’essere semplicemente un atleta che lo rappresenta. Qui [in On] c’è molta libertà, ed è stupendo poter essere in contatto con Kevin Quadrozzi [Head of Global Athlete Strategy & Partnerships - Performance Running di On]. Mi chiede quali siano i miei obiettivi, come mi trovo con le scarpe. Mi piace poter essere in contatto con lui e ricevere il suo feedback. Al di là dei prodotti, che considero eccellenti, io credo nella visione di On. 

Alla vigilia dei Trials, il tuo tempo per la maratona ti fa classificare al 13º posto, e hai il tempo più veloce di tutti nella mezza maratona.  Come ti senti alla prospettiva dei tuoi primi Trials per la maratona?

Mekonen: So che ci sono altri americani che hanno tempi più veloci, ma ho lavorato molto sui fattori che hanno portato a quel 2:10. Avevo alle spalle un allenamento eccessivo. Mi piace comunque spingere al massimo, ma adesso ho un ottimo coach, un’ottima squadra. La mia alimentazione è migliorata e sono in un ambiente migliore. Insomma, non sono preoccupato: conosco il mio corpo e la mia etica professionale, e so di essere pronto a ottenere un tempo più veloce. Sono sicuro che andrò molto bene ai Trials e che farò un’ottima gara. Mi vedo a rappresentare l’America alle Olimpiadi. 

Cosa significherebbe per te qualificarti per Parigi quest’anno come cittadino americano?

Mekonen: Rappresentare gli Stati Uniti mi renderebbe molto felice perché, pur essendo nato in Etiopia, negli USA mi sono creato una vita, una famiglia. È il paese che mi ha dato la libertà di poter essere me stesso, di diventare la persona che sono oggi. Il mio traguardo non è solo rappresentare gli Stati Uniti, ma anche vincere una medaglia.